Corrotte dall’amore al tempo degli dei (parte I)

Ogni cosa è immobile, il silenzio impedisce il movimento, è come se tutto si fosse fermato per qualche istante, mascherato da un ingannevole senso di pace e calma. Soltanto...

Ogni cosa è immobile, il silenzio impedisce il movimento, è come se tutto si fosse fermato per qualche istante, mascherato da un ingannevole senso di pace e calma. Soltanto il cuore continua a battere, scuotendo l’anima e facendola vibrare, pretendendo di poter sovrastare il nulla e di continuare a infondere vita agli arti ormai stremati. Cuore illusorio, che divora la mente nutrendosi di emozioni, vagando alla ricerca di qualcosa che lo faccia sentire vivo, una ragione per cui non smettere di sussultare nel petto. Ma è una ricerca vana, fatta di inganni e abbagli perché sono proprio quei preziosi sentimenti, a volte, a condurci verso il vuoto, cimitero di speranze e desideri, lì dove tutto perde la propria importanza, ogni minuto è un’agonia del corpo e dell’animo ed ogni parte di noi è lesa.

E’ il tormento di Didone, regina di Cartagine, donna la cui intima essenza viene lentamente sgretolata, per poi renderla vacua e di una insolita leggerezza. E’ la condizione di colui che ha trovato la commozione e quel turbamento che svela la nostra vulnerabilità, scuote lo spirito, impedisce il sonno, ci spinge ad abbandonare ciò che eravamo, scioglie promesse in cambio della felicità eterna. Ma niente è duraturo, destinato a mantenere la propria validità nel tempo, tutto è fuggitivo e mutabile perché così sono i nostri desideri.

L’amore confonde e rende eroi, pronti a battersi per proteggere quel sentimento intangibile, fa perdere il senno, inducendo a pensare che sia quella la meta finale della nostra interminabile ricerca e che dopo ciò non ci sia altro se non l’oblio, l’impassibilità di ogni cosa, reale termine del nostro vagare, indotto dall’abbandono; quello tra Ettore e Andromaca, Odisseo e Calipso, Enea e Didone, uniti dall’amore ma separati da una ragione più forte che alla fine sovrasta quel sentimento e scioglie legami che apparivano eterni. Da una parte la donna, romantica e sognatrice, che all’amore ha ceduto tutto arrendendosi ad esso completamente e spesso rinunciando anche a sé, dall’altro l’eroe che nel suo cammino incontra l’amore ma che non permette a questo di frapporsi fra sé e la sua meta, lo scopo al quale egli, per definizione, è destinato.

Gli sguardi si incrociano, ma con timore, il valoroso troiano parla per l’ultima volta alla moglie gemente prima di impugnare la spada. E’ una separazione sofferta quella di Ettore e Andromaca nell’Iliade: quest’ultima sa di non potersi opporre alla volontà del marito ma tenta strenuamente di convincerlo a restare tra le alte mura di Ilio, tra le sue braccia, e con la mano legata a quella del figlio che mai vedrà crescere. Per Andromaca, Ettore è anche padre, madre e fratello ed a lui ha legato la sua anima, il suo è un amore sincero e necessario ma destinato a frantumarsi. Il cuore di Ettore lo stimola a combattere primeggiando tra le schiere, rinunciando ad Andromaca, che sarà costretta a guardarlo allontanarsi verso la propria sorte, strutta dal pianto, estremo tentativo di reprimere quell’animo rinchiuso nell’armatura (“Il cuore non mi spinge a restare”).

Sono uomini in continuo movimento, quelli descritti da Omero e da Virgilio, decisi a procedere imperterriti, seguendo il codice che hanno forgiato nella loro anima. Delle donne abbandonate restano soltanto occhi supplichevoli, cuori feriti, menti ormai irragionevoli, sole e circondate da un amore per il quale hanno soffocato il proprio equilibrio, che ora le sta corrodendo, conducendo una forte passione ad una violenta fine. Si trovano quindi, a contemplare il mare, luogo di fughe e di ritorni, apparentemente senza un’origine, incerto, le cui onde trascinano le navi come gli dei e il destino sospingono gli uomini. Solo l’amore può placare questo movimento perpetuo, non compromessi, patti, non offerte, solo due anime legate possono resistere alle pressioni della sorte.

Neanche la promessa dell’immortalità fatta da Calipso ad Odisseo riesce a fermare il suo viaggio. La ninfa, attratta dall’eroe Acheo, gli impedisce di procedere nel suo percorso, è convinta dell’amore che prova per lui, un amore obbligato che la libera dalla solitudine alla quale è condannata. Il tempo riporta i ricordi alla mente di Odisseo che viene pervaso da tristezza e malinconia, ed ecco che si ritrova ad osservare il mare desiderando di allontanarsi. Nello sguardo di Calipso, presunzione e arroganza si confondono con la sofferenza di una donna respinta. Ma questa consapevolezza non la porta a rinunciare al suo sogno di felicità e, convinta di poter cingere il cuore di Odisseo, gli offre il dono più prezioso per un mortale: la possibilità di vivere senza la coscienza di una fine, la cancellazione del limite. Ogni emozione sarebbe infinita, ma ciò per Odisseo significherebbe abbandonarsi all’amore imposto dalla ninfa e vivere in eterno con le reminiscenze e i rimpianti di un lontano passato. Ma neanche questo riuscirà a distogliere l’eroe dalla propria meta lasciando Calipso preda di un incontrollabile profondo e infinito dolore, esternato dalle lacrime che le rigano il volto, mentre Odisseo scompare fra le onde. Ella si ritrova abbandonata e quasi schiacciata dall’immane sentimento, tanto dolce quanto distruttivo, che si era impossessato di lei. Si tratta di un dolore che immobilizza il corpo, è come un grido nel vuoto senza rumore, è una morte interiore lenta e travagliata, causata dall’innocuo amore.

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