I suoi occhi vedevano poesia

Storia di Alessia Ogni domenica pomeriggio mi accarezzava le guance rosee con le sue mani di rughe solcate dal tempo, mi sfiorava i capelli -i suoi fili d’oro, li...

Storia di Alessia

Ogni domenica pomeriggio mi accarezzava le guance rosee con le sue mani di rughe solcate dal tempo, mi sfiorava i capelli -i suoi fili d’oro, li chiamava- con quelle sue dita affusolate e ossute, mi guardava le labbra -come due petali rossi- con quei suoi occhi piccoli velati d’una patina di un opaco biancastro, incorniciati da folte sopracciglia bianche. Mia nonna: le cascavano fiumi di capelli grigio perla sulle spalle, morbidi le abbracciavano il collo, le accarezzavano quel viso che nella vita ne aveva vissute tante.

Ogni domenica pomeriggio mi raccontava una storia, una delle sue miriadi, erano racconti di vita, di gioventù, di vecchiaia, tutti ornati da un non so che di poetico, misterioso, affascinante. “La tua vita sembra un film!” Le ripetevo sempre e lei sempre mi riproponeva, con la sua calma voce flautata e mai stanca: “Non solo la mia: anche la tua, anche quella degli altri! Ogni vita è fatta di attimi, scoperte, avventure, ogni vita è una serie di entusiasmanti fotogrammi di film, o di avvincenti capitoli di un libro, o di dolci versi di una poesia, basta solo saperla viverla intensamente e vederla dalla giusta prospettiva, e subito avverrà la magia! Ogni vita ha uno scintillio che ammorbidisce ogni cosa, uno scintillio sempre presente, ma spesso impolverato dalla monotonia, assopito nella noia, eclissato dalla negatività”. Com’era ottimista, mia nonna. Era una poetessa, credo. Anche se non aveva mai terminato gli studi, anche se di brutte soprese ne aveva ricevute tante. Ma ogni volta che si accingeva a raccontarmi una storia, ecco che la nostra stanza si trasformava, e poteva diventare un prato iridato di fiori, un campo insanguinato di papaveri, un vicolo di un paese rattristito dalle tenebre ma cullato dalla luna, sempre troppo piccola, troppo lontana.

Una domenica pomeriggio mi raccontò di quando incontrò nonno. Era una sera d’estate, una di quelle calde sere di grilli che cantano e lucciole frizzanti che volteggiano nel buio. Era festa in paese, si stava ballando. E poi, uno sguardo! Un semplice, dolce, lungo sguardo. Era quello di nonno, che veniva dalla città. E poi la festa finì. Nient’altro. Ma il giorno dopo, mio nonno era ad aspettarla davanti casa. E aveva un foulard rosso in mano. Il foulard che nonna aveva perso la sera prima. Come mio nonno, vecchia volpe, avesse fatto a scoprire dove abitasse nonna, non lo saprò mai, forse! So solo che poi lei lo ringraziò e subito lo congedò, facendogli capire che non era interessata. Ma poi, qualche giorno dopo, un fiore davanti la porta. E il giorno dopo ancora, un altro. E poi ancora un altro. E poi mia nonna, tra gentili parole e pensieri teneri, si lasciò convincere e cadde tra le sue braccia. Come non si può paragonare tutto questo a un film? La vita di mia nonna era un film, davvero! Ma lei mi smentì, e continuò raccontandomi di quando, sposati, lei e lui apparecchiavano la tavola: lei, ogni volta, presi due lembi della tovaglia -celeste come cielo terso di settembre-, la faceva volare in alto, la osservava gonfiarsi e lenta ricadere sul tavolo. Lui ci poggiava sopra i tovaglioli, le sui tovaglioli metteva le forchette, lui a fianco alle forchette ci avvicinava i coltelli, lui riponeva il cestino del pane, e lei come al solito lo scostava un po’ verso destra, così che fosse esattamente al centro, e insieme portavano i piatti, come sempre. Un rituale ripetuto identico per anni, ma che non si è mai arrugginito, perché il segreto era nei loro occhi, nel vedere le cose dalla giusta prospettiva, nell’immaginare le forchette e i coltelli due amanti proprio come loro due, nel pensare che il tovagliolo bianco fosse la loro nuvola, il loro letto, dal quale non si sarebbero mai divisi, e nel considerare la tovaglia come un cielo immenso in cui forchette e coltelli avrebbero fluttuato incessantemente, amandosi. E così, mi stregava con questi suoi racconti, e mi dimostrava che non solo le cose straordinarie sono poetiche, ma anche quelle assolutamente normali.

E così continuava, ogni domenica pomeriggio. Straripava di storie, mia nonna. E io ero sempre più convinta che ogni persona fosse una storia infinita: ogni uomo, ogni donna, anche ogni bambino porta con sé infinite storie, infiniti attimi, infiniti momenti che possono essere dilatati all’infinito dal dono della parola, dell’immaginazione, dell’addolcire tutto con belle frasi, belle considerazioni. Non si riuscirà mai a conoscere fino in fondo una persona, non si riuscirà mai ad ascoltare tutte le sue storie, ogni giorno che passa le storie aumentano sempre più, e il bello è proprio questo, perché ognuno rimarrà sempre uno scrigno di piume e sogni, strade e progetti, perle e ricchezze, talismani e misteri. Ognuno è una storia infinita, e mia nonna non riuscì mai a raccontarmele tutte, quelle storie. Ci abbandonò un sabato sera, e mi chiedo sempre con quale racconto mi avrebbe stregato il giorno dopo. Me lo chiedo e inconsapevolmente ci costruisco sopra una storia mentale: invento, ipotizzo, e inconsapevolmente addolcisco quella morte, la sublimo fino a farla diventare “un elettrizzante fotogramma di un film, un avvincente capitolo di un libro, un dolce verso di una poesia”, grazie nonna, forse ho finalmente imparato anch’io.

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