Il viaggio: dall’iter come spostamento materiale all’interiorizzazione della meta – prima parte

Nell’ambito della Quarantacinquesima edizione del Premio Letterario Basilicata, è stato bandito per la seconda volta un concorso letterario riservato agli studenti degli Istituti di Istruzione Secondaria Superiore della Basilicata....

Nell’ambito della Quarantacinquesima edizione del Premio Letterario Basilicata, è stato bandito per la seconda volta un concorso letterario riservato agli studenti degli Istituti di Istruzione Secondaria Superiore della Basilicata.
Michele Di Bello è tra gli 8 vincitori di questa edizione, con il tema Il viaggio: dall’iter come spostamento materiale all’interiorizzazione della meta.

Qui di seguito vi proponiamo la prima parte del suo componimento. Buona lettura!

 

“Lascia i tuoi luoghi e cerca altri lidi, o giovane, e ti si apriranno più vasti orizzonti”

Petronio, scrittore e cortigiano romano del I secolo, aveva già colto l’importanza del viaggio quale spostamento necessario, brama e volontà di affacciarsi ad orizzonti più vasti, da ricercarsi a partire dall’abbandono dei propri lidi, e quindi dei propri confini, per esplorare nuovi panorami e godere di più ampie vedute. Da sempre compagno dell’uomo, il viaggio come un fiume in piena irrompe nella sua esistenza, stagliandosi in essa come percorso da cui non si può prescindere, vitale e diverso per ognuno. Ma quella di Petronio non è che una constatazione successiva alla comparsa del tema del viaggio tra le pagine della letteratura. Infatti, estendendo lo sguardo fino al remoto tempo degli albori della poesia epica, si può constatare come nella mente dell’uomo l’essenzialità del viaggio anche semplicemente inteso come allontanamento della propria patria già si ponesse come una costante dell’animo umano e meritasse attenzione, tanto da sembrare essere stato l’argomento principale del primo grande poema epico pervenutoci: l’Epopea di Gilgamesh.

Il personaggio attorno al quale ruota la vicenda, complesso a partire dal suo difficile inquadramento di re, uomo oppure dio umanizzato, e che muove i passi in ambito storico-culturale mesopotamico (III millennio a.C) rappresenta il primo esemplare di viaggiatore, il primo “nomade” della letteratura la cui storia tanto antica quanto di fondamentale importanza per la comprensione dei futuri sviluppi di uno dei temi portanti della letteratura di tutti i tempi diverrà punto di riferimento anche per l’epica greca. “Di Gilgamesh che vide ogni cosa voglio io narrare” è l’esordio del narratore, che delinea un eroe già al termine delle sue peripezie. La figura dell’eroe saggio e onnisciente descritta in apertura del poema è in effetti solo il risultato finale del viaggio che egli compie, e nel prologo ha già percorso tutte le tappe del cammino al termine del quale l’iniziale prepotenza e inquietudine verranno rovesciate nella sua proverbiale saggezza. Inteso come esperienza di cambiamento e di miglioramento, il viaggio assume nell’Epopea le tinte di un percorso formativo e di crescita, in cui sono ben delineate tutte le sue varie tappe; se invece inteso ad un diverso livello di lettura, si intravede nel cammino di Gilgamesh il rispecchiarsi delle paure dell’uomo, che l’assalgono sin dalla notte dei tempi, paura della morte, paura di capire e poi di perdere il senso stesso dell’esistenza, l’angoscia esistenziale, che comunque veicola attraverso le stazioni e le mille prove del viaggio.

La trama di formazione dell’Epopea consente l’accostamento dell’opera stessa ad uno dei nuclei narrativi in cui può essere suddivisa l’Odissea, poema omerico interamente consacrato alla dimensione del viaggio e delle peregrinazioni, la Telemachia, ovvero il percorso di Telemaco alla ricerca di notizie del padre. Il viaggio di Telemaco non soltanto a scopo conoscitivo si definisce già al verso 95 del libro primo dell’Odissea (“Perché abbia nobile fama tra gli uomini”), in cui le parole della dea Atena in riferimento a Telemaco introducono, accanto alla ricerca di notizie sul padre lontano dalla patria, anche un secondo obiettivo, che si traduce nel “rito” di iniziazione che gli consentirà la piena realizzazione della sua efebìa. Nello spazio narrativo a lui interamente dedicato, affronta infatti un allontanamento da Itaca in due tappe, Pilo e Sparta, che renderanno possibile il pieno distacco del principe di Itaca dall’età adolescenziale per introdurlo nella sfera adulta.

E’ spostamento fisico da un suolo ad un altro, ma anche tangibile salto da un età ad un’altra, che è visibile concretamente nell’atto di mettere a tacere la madre Penelope, assumersi le responsabilità di capo della reggia e sfidare a proprio nome i Proci. La manifestazione di nuovi segni nell’atteggiamento di Telemaco sta ad indicare lo scopo formativo del suo viaggio che delinea, al termine, i tratti del suo carattere, della sua personalità e le sue virtù che, se prima solo abbozzate, ora divengono marcato segno di riconoscimento del figlio dell’eroe di Itaca. Il viaggio di formazione e informazione di Telemaco è distante anni luce dal viaggio del padre, Odisseo, che, omaggiato fin da sempre dalle molteplici arti della poesia, della prosa, della pittura o della musica e colto sempre lì, sulla sua nave, intento a lottare contro una burrasca, assomma in sé le caratteristiche del viaggiatore di tutti i tempi, spinto da necessità pur sempre umane, come un richiamo emotivo della sfera affettiva, ma archetipo dell’uomo curioso che dimostra di non fare differenze tra umano e divino quando si tratta di raggiungere un obiettivo che, sorvolando potere, ricchezza e autorità, lambisce le corde della sapienza di cui l’eroe tenta di afferrare i velati e talora inaccessibili segreti.

Personaggio poliedrico, dotato per alcuni di positiva capacità intuitiva e cognitiva, biasimato da altri in quanto fornito di una sagacia e di una scaltrezza che quasi sfiora la malvagità e di una mancata conoscenza dei limiti imposti all’uomo che è disposto, anzi più che pronto a valicare, Odisseo/Ulisse e le sue avventure durante il viaggio di ritorno dalla guerra di Troia, se analizzati oltre la patina superficiale di racconti appartenenti al genere del meraviglioso, hanno in sé la parabola della vita, di cui l’eroe-viaggiatore rappresenta il mezzo attraverso il quale fluisce tale messaggio: non è semplice vòstos il suo viaggio, ma percorso di ricerca e di conoscenza, una dimensione cognitiva che non conosce tempo né spazio e che non appartiene completamente né all’uomo né al dio, e di certo non può diventare patrimonio comune di entrambi, in quanto l’essere umano ha dei margini entro i quali deve mantenersi. E’ nei confronti di questi ostacoli, dei limiti, delle barriere che Odisseo muove la sua battaglia.

Il suo è un combattimento più mentale che fisico verso quei terribili confini che vorrebbe oltrepassare. Attraverso il viaggio Odisseo matura una dimensione che è ben più propria di un viaggiatore che non di un turista: con occhio mai sazio di una nozione o di una spiegazione, vuole oltrepassare il consentito per accedere a conoscenze purtroppo negate all’uomo e non si ferma ad una banale risposta, ne cerca altre cento, non si accontenta dell’apparenza ma ricerca il dettaglio e la sua sete pare impossibile da placare. I limiti del mondo allora conosciuto, designati con le Colonne d’Ercole, rappresentano per Odisseo niente più che un’artificiale convenzione volta a coprire (e forse giustificare) le incapacità dell’uomo, di cui con il suo viaggio l’eroe redarguisce la pigrizia, la pavidità e l’apatia e le ristrettezze del suo mondo. Scilla e Cariddi, le Sirene, Polifemo: come azzerati dal suo ingegno paiono essere i rischi che egli è disposto a correre e che si trasformano nella psiche dell’eroe in prolifiche occasioni di accrescimento culturale, arricchimento.

Non c’è sfida tanto ardua che non possa affrontare, né ostacolo che non riesca ad aggirare, c’è solo una forza psicologica che si articola nelle sue peregrinazioni come autocoscienza e riscoperta di sé. Nel turbinio di eventi che lo travolgono Odisseo talvolta sembra perdere di vista l’obiettivo di fondo che è il ritorno in patria, recuperato sempre però con lucidità, grazie a quell’intelligenza che sta alla base delle sue imprese. Adagiato sui comodi letti di Circe, provato dai cori melodiosi e tentatori delle Sirene, la mente dell’eroe pare infatti essere offuscata dalla cosiddetta “tentazione del non ritorno”, quella sensazione di benessere e di completezza che lo riempiono di sicurezza e apparente stabilità, nei momenti in cui ha in mano gli strumenti per accedere alla conoscenza che brama (come il canto stesso delle Sirene, purtroppo illusorio), e rendono accessorio tutto il resto. Posto come certo che, nell’animo del viaggiatore, ancor più in alto del ritorno in patria, si collochi il raggiungimento della conoscenza del mondo, delle “città e delle menti” degli uomini, è giusto supporre che in fondo l’obiettivo di Odisseo non sia più il ritorno ad Itaca.

La dimensione circoscritta del suo regno, che riesce comunque a recuperare con la stessa intelligenza che lo caratterizza in ogni punto della vicenda, si rivela non essere più quella agognata dall’eroe, ma piuttosto una scatola chiusa, soffocante e polverosa, (in effetti dopo la sua assenza l’isola decadde letteralmente) perché su quella zattera, in balia delle onde, sempre alla ricerca di un espediente e di nuove conoscenze, Odisseo ha conosciuto il vero sé, nella lotta con il mare ha scoperto di averlo come amico, e che la sua stessa persona è tenuta in vita dal viaggio. Ha capito che nel fluttuare incostante ed instabile delle onde, nello sciabordio furioso delle maree (Arthur Rimbaud, Le bateau ivre) esiste una stabilità celata che gli appartiene e che gli è congeniale. Da “relitto estasiato” della sua nave e insieme del suo gruppo di compagni, Odisseo è rimasto in equilibrio, ora aggrappandosi al velo della dea Leucotea, ora contando sulle sue forze tutte umane non sempre bastevoli che l’hanno sorretto nel suo viaggio decennale. Il suo regno non è Itaca, non deve combattere i Proci: adesso ha scippato il tridente di mano a Poseidone e si affretta a governarne i flutti. Non è la sedentarietà che fa per lui e ciò l’ha scoperto proprio vagando, nella condizione di esule per mare ha trovato la sua costante e la sua piena realizzazione.

Tanto che non si fermerà molto a Itaca, ma si allontanerà nuovamente dalla patria per arrivare quasi a porre il suo vessillo oltre i limiti del raggiungibile dove il mare si rivelerà davvero proiezione dei rischi e delle paure dell’uomo, e lo inghiottirà per sempre, con la sua sfida ai limiti ormai vinta. Nel “folle volo” che Dante tanto gli rimprovererà, Odisseo ultima la sua esperienza umana che ha vissuto appieno e di cui non ha sprecato nemmeno un istante. L’eroe senza limiti non si sarebbe fermato, avrebbe continuato il suo viaggio di ricerca che gli ha donato la piena coscienza di sé. E’ a questo punto, appurato che comunque l’eroe si spingerà oltre i confini del mondo e si esporrà al rischio estremo, che l’itinerario di Odisseo si discosta dalle cartine dove esso è tracciato e si sdoppia. Accanto ai riferimenti geografici delle sue fermate, la mappa adesso esplora il suo io, definendo e localizzando le tappe del suo percorso di scoperta del mondo e soprattutto della sua vera natura e il viaggio percorre un binario parallelo, invisibile che ha stazioni diverse, rivelandosi parte essenziale e totalizzante di lui. Partito come simbolo del viaggio, Odisseo si trova adesso a trasformarsi in esso, diventare punto di partenza, percorso, tappe, meta e mezzo, dimostrando le dinamiche per cui la vita stessa è un viaggio.

Categories
Talking about_Italiano
No Comment

Leave a Reply

*

*

RELATED BY