Medea e l’archetipo della straniera

Personaggio carico di pathos e dall’interessante classificazione psicologica, Medea rappresentava per gli antichi, come lo rappresenta tutt’ora, l’archetipo greco della straniera, l’esule, una figura in eterno moto, che continuamente...

Personaggio carico di pathos e dall’interessante classificazione psicologica, Medea rappresentava per gli antichi, come lo rappresenta tutt’ora, l’archetipo greco della straniera, l’esule, una figura in eterno moto, che continuamente si sposta a causa del suo modo di essere.

Accanto ad altre personalità greche come le maghe Pasifae e Circe, è discendente del dio greco del Sole Elio, e quindi ereditiera dei suoi poteri divini. E’ figlia di Eete, re della Colchide e di Idia, una delle ninfe Oceanine. Il suo nome deriva dalla lingua greca, nella cui letteratura e mito il personaggio affonda le sue radici: Μήδεια, (Mèdeia) infatti, significa “astuzia” “scaltrezza”, a rimarcare la personalità furba della donna. Da sempre interpretata come una maga dai poteri malefici e il carattere volubile, Medea trova spazio in numerosi miti e opere antiche (sia greche che latine), vestendo i panni della straniera che al contempo affascina ed atterrisce.

Rappresenta inoltre una delle personalità più controverse ed inquiete del mito greco, alla quale Euripide e Seneca, nelle loro due tragedie, hanno voluto riservare il ruolo di protagonista. Anche altri autori classici, come Apollonio Rodio, Ovidio e Draconzio, affascinati dalla complessità di questa psicologia poliedrica, ne hanno voluto immortalare nelle loro opere a più riprese la studiata struttura. Tutti gli autori citati trattano il mito di Medea in maniera personale, sempre soffermandosi su lati diversi della sua personalità a seconda del contesto.

Come nelle Argonautiche di Apollonio Rodio, Medea è una giovane innamorata a tal punto da voler rinunciare alla patria pur di seguirlo, nella Medea di Euripide è rimarcata piuttosto la tragicità del personaggio e la sua spietata vendetta nei confronti di Giasone.

Anche nella Medea di Seneca si riscontra lo stesso modello interpretativo, poiché l’opera senechiana non è che un rifacimento fedele dell’opera euripidea. Non solo Seneca prese spunto da Euripide per costruire una tragedia incentrata sul personaggio di Medea: altri latini, quali Ennio, Accio, Lucano e Ovidio (perché anche lui scrisse una tragedia sfortunatamente perduta intitolata “ Medea”), sul modello del tragediografo greco, ricrearono le loro fabulae cothurnatae.

Tornando alle molte interpretazioni della personalità di Medea, tutti, comunque, concordano nell’affidare alla mitica donna il ruolo dell’amante tradita (così come accadrà più tardi, nella letteratura latina anche a Didone, abbandonata da Enea per volere divino, il che tuttavia non impedirà alla regina cartaginese il suicidio), la quale è disposta a tutto pur di dare una svolta alla propria condizione, il proprio status.

Come già accennato, l’angolazione dalla quale gli autori classici guardano Medea è abbastanza soggettiva. Talmente tante sono le possibili interpretazioni del personaggio che lo stesso Ovidio dà due ritratti della donna in due distinte opere. Così nelle sue Heroides, mette in risalto il pianto e l’amarezza della giovane Medea che, nell’epistola a lei riservata, tenta di commuovere il marito; nelle Metamorfosi invece, la donna distrutta dal dolore pare reagire alla situazione in un turbolento susseguirsi di emozioni.

Nelle Metamorfosi, infatti, Medea oscilla tra mens e cupido, ratio e furor. Nella sua opera Ovidio pare voler dare più importanza al passaggio tra realtà ed illusione, che effettivamente è ciò su cui si fonda l’essenza di Medea. Perciò, se prima la donna si era presentata come un’ eroina, adesso getta la maschera, rivelandosi per ciò che è davvero, ossia una maga, gradualmente perdendo gli attributi umani, per poi esplicitare la sua natura.

E’ nella scena in cui Medea fugge su un carro trainato da draghi donatole da Elio (scena che l’autore decide di inserire a metà della narrazione, distaccandosi dalle opere di Euripide e Seneca, che invece la inseriscono come momento culminante dei fatti) che Ovidio decide di sostituire ad un finale tragico, un finale in cui è molto marcato il cambiamento, la metamorfosi, per tener fede al titolo: adesso Medea è una maga e non teme nessun tipo di punizione per il suo crudele infanticidio. Questo tipo di interpretazione si avvicina molto a quello di Apollonio Rodio. Altro tipo di lettura è suggerito da Draconzio, che nella sua Medea, giustifica le azioni dei personaggi (e di Medea) con il concetto del “divino”. Per questo l’uccisione dei figli di Medea, Mermo e Fere, avvenuta di suo pugno, è legittimata in qualità di un semplice sacrificio a Diana, dea della caccia, alla quale nel punto finale del componimento Medea si ricongiungerà, rivestendo i panni della virgo cruenta, ruolo rivestito in parte anche dalla Camilla virgiliana, la virgo bellatrix, che era in passato, prima di conoscere Giasone.

E’ proprio in questo momento del mito narrato da Draconzio che Medea abbandonerà il marito e lascerà in terra tutto ciò che la legava a lui. Qualunque sia il suo carattere, Medea rimane una personalità in cerca di un’identità stabile, umana, cercando di cancellare i suoi tratti divini. Ma, come nel caso di Achille e della sua “ira funesta”, i semidei sono costretti a vagare per il mondo alla ricerca di una sfera in cui sentirsi riconosciuti, a cercare un’accettazione ed un merito che potranno ottenere solo con il pieno raggiungimento della divinità.

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