Generation Gap

“Oggi si dice che ti serve uno speciale apparecchietto da applicare alla TV in modo che i bambini non possano guardare questo o quello. Ai miei tempi, non avevamo...

“Oggi si dice che ti serve uno speciale apparecchietto da applicare alla TV in modo che i bambini non possano guardare questo o quello. Ai miei tempi, non avevamo bisogno di un simile marchingegno. Mia madre era l’apparecchietto. Fine della storia.”

Ray Charles aveva già notato, tempo fa, che nel rapporto genitore-figlio, che lui ricordava strettamente legato alla presenza di un’autorità indiscutibile, l’entrata in scena di nuovi panorami digitali stava lentamente cambiando i termini del rapporto stesso. E’ facile comprendere questa metamorfosi temporale, semplicemente sostituendo ai termini di Charles i due elementi essenziali del rapporto: “apparecchietto” e “TV” con “genitore” e “figlio”. Se “ai suoi tempi”, il freno era costituito dallo sguardo, il gesto proibitivo del genitore, a distanza di pochi decenni solo un intervento digitale è sufficientemente efficace a contenere la curiosità talvolta esagerata e le mancate differenze che rischiano di trasformare i bambini in “piccoli adulti”. Anche la visione di un programma poco adatto all’età infantile, o la lettura di un giornale di cronaca nera che non rispetta la mente colorata di un bambino, rischia di appiattire le differenze generazionali che il tempo ha sempre imposto. Al giorno d’oggi il bambino stesso rappresenta una TV, una radio accesa, simbolo della tecnologia e del progresso, che si staglia contro la mimica arrabbiata e contrariata del genitore che vuole impedirgli di vedere un programma televisivo vietato al di sotto di una data età. E’ proprio l’età la principale responsabile di tali contraddizioni; il momento in cui si nasce, e quello in cui si cresce e come lo si fa, l’ambiente in cui si vive, l’aria che si respira condizionano la mente di un bambino e gettano le basi per la maturazione dell’adulto che sarà domani.

Ma gli scenari vanno continuamente evolvendosi, e capita che un adulto, abituato a determinate attività, formae mentis, caratteri, possa non capire o non accettare questo sviluppo esageratamente rapido.

Allo stesso modo, accade che un bambino che diventa un ragazzo in questo confuso ambiente di velocità destabilizzante, che può imparare a gestire solo vivendola nel modo giusto, perda i suoi punti di riferimento, indeciso tra un “oggi” ricco di vantaggi ma anche contraddizioni, e “ieri” forse non adatto a rappresentare la sua generazione.

Ecco allora che si scontrano l’”adulto” e il “ragazzo”, esponenti entrambi di due diverse generazioni, spesso e volentieri antitetiche in alcuni tratti, che sfociano nella maggior parte dei casi in continui dibattiti e incomprensioni, seguiti da lunghi e imbarazzanti silenzi, isolanti “ognuno nella propria generazione”.

I punti di vista su questa faccenda sono molti e contrapposti, spesso contraddittori, e diversi da persona a persona. Non esiste ormai una rigida classificazione che impone un adulto incravattato e magari “all’antica” ed un ragazzino con in mano un cellulare d’ultima generazione, distratto e con la testa immersa in una playlist assordante.

Ma chi è che fa le spese di questo mutabile tempo che sospinge gli adulti ad essere bambini e bambini ad essere adulti? Per vincere quest’incomunicabilità che può venirsi a creare è necessario un punto d’incontro, tale da consentire agli adulti di mantenere intatta la propria identità e autorità genitoriale e ai ragazzi una crescita nei pieni potenziali della stupefacente età che sta vivendo.

I cambiamenti, si sa, impongono una disposizione mentale comunque diversa dalla precedente, talvolta difficile da attuare, anche se strettamente necessaria. E questo, senza dubbio, lo vivono adulti e bambini.

Perché non esiste alcuna legge che vieti ad un genitore di essere “al passo” pur continuando a proporre i modelli morali che ha cari, oppure neghi ad un ragazzo un diverso utilizzo delle meraviglie che ha fra le mani e davanti agli occhi nell’età contemporanea, meno rapido e fugace, ma sfruttato al massimo del suo potenziale, forse più “pensato”.

E’ evidentemente la mancanza del tempo per riflettere, guardarsi intorno, che smarrisce i punti di riferimento, necessari per chi vuole godersi tutti i vantaggi dell’epoca in cui con un click ci si affaccia all’altro continente, ma non esaurendo la propria originalità ed evitando la trasformazione in un automa privo di sé. Il dialogo, sicuramente difficile tra due generazioni diverse, può essere complesso proprio per queste differenze anche tra i membri dello stesso “branco”, difficile se non si parla la stessa lingua.

Ma l’idioma che parliamo non dev’essere lo stesso: la globalizzazione, personalmente, insegna ad imporre un unico codice valido per tutti, che fornisce soddisfazione ed una comodità senza pari, ma esaurisce i motivi per cui si è esseri umani e non macchine.

Il mondo è per definizione policromo e poliglotto, e non è possibile che sia motivo di disagio e di esclusione la semplice distanza dal “modello dominante”. “Parlare la stessa lingua” non significa sbiadire i propri colori per omologarsi agli altri. No. Significa trovare un codice che riesca ad attivare “link” mentali, connessioni tra le persone anche al di fuori dell’ambito virtuale che restituiscano l’immagine di un mondo sempre in corsa e più avanti, ma mai dimentico dei suoi valori che rischiano di affogare nel mare virtuale di un’interconnessione vissuta nel modo sbagliato.

Forse, il distacco generazionale dev’essere di insegnamento, deve far comprendere che c’è un motore nell’animo umano che lo spinge ad andare avanti, e questo comporta differenze. Ma le differenze, quelle che esistono da un età ad un’altra, da un genitore al figlio, dal nonno al nipote, devono far crescere, essere trampolino di lancio per uno sviluppo personale non privo di autocontrollo, moderazione e “cervello”.

Andare a ritmi pazzeschi per raggiungere l’ultima delle innovazioni che la tecnologia mette in vetrina? Assolutamente sì, se esiste una base solida di convinzioni che riesce a fornire all’adulto “old generation”, e al ragazzo “new generation” gli strumenti per dialogare e condividere interessi che crescono con loro.

Per un ragazzo, rifiutarsi di prestare ascolto ai consigli di un genitore che considera “arretrati” è come sbattere una porta in faccia. Per un adulto, rifiutarsi anche solo di tentare di capire i nuovi ritmi, è la stessa cosa. Le sempre più comuni condivisioni di tutto ciò che si può condividere e anche quello che, almeno apparentemente, non può essere posto come argomento di dialogo devono essere sempre motivo di arricchimento e mai di isolamento. Uno sharing che tiene in conto le stesse differenze per cui nasce, crea ponti rispettando la diversità delle terre che collega. Mai chiudere una porta, tenerle sempre aperte, “compartecipare” deve significare esplorare le varie sfumature del mondo che è intorno a noi, con l’equilibrio e i maturi punti di riferimento di chi è adulto e la prima voglia di scoprire di chi è bambino.

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