Le metamorfosi (L’asino d’oro) (Recensione) seconda parte

Qui puoi leggere la prima parte   I “quaranta ladroni” che nelle trame di Le mille e una notte saccheggiano la Persia e nascondono il frutto dei loro furti...

Qui puoi leggere la prima parte

 

I “quaranta ladroni” che nelle trame di Le mille e una notte saccheggiano la Persia e nascondono il frutto dei loro furti nella celebre spelonca, infatti, sembrano assai simili ai ladroni di Apuleio. Il tema della banda di furfanti, del resto, non era raro nella letteratura mitologica, e si è conservato uguale fino all’Ottocento, dove se ne potrebbe ravvisare una moderna ripresa nei “bravi” manzoniani, tutti rigorosamente al servizio di un signorotto o di un capo locale, la cui fama è negativamente larga. Delle Mille e una notte, Le metamorfosi conservano anche l’ampissimo uso della narrazione nella narrazione”, con l’impiego di narratori anche di terzo grado, che verrà riutilizzata nel 1300 anche da Boccaccio. In più, considerando il romanzo di Apuleio un romanzo di formazione, esso non sembra estraneo alla sequenza narrativa che Manzoni ne I promessi sposi dedica unicamente alla formazione di Renzo: anche in quel caso il protagonista è coinvolto in un viaggio durante il quale, per redimersi da un peccato che ha commesso in precedenza, la degradazione per Renzo e la curiosità per Lucio, deve ritrovare se stesso in un percorso a più tappe che comporteranno l’espiazione e la riappropriazione da parte dell’individuo della propria identità.

Non solo Renzo nel romanzo manzoniano ha un momento di perdizione e di incoerenza rispetto alla sua identità: anche Don Rodrigo, in modo meno evidente e più sbrigativo, attraversa una simile crisi, in seguito al superamento della quale “si risveglierà don Rodrigo”, vale a dire riconquisterà se stesso (capitolo VII). Oltre al percorso di Lucio, anche in quello di Psiche si può ravvisare la stessa attenzione per il percorso dell’individuo. Infatti, a tutti gli effetti, le “fatiche” che Psiche deve compiere per ritrovare Amore sono tutte tappe di un viaggio di formazione che alla fine, dopo averla provata corpo (Amore) e anima (Psiche), la ricompenserà con l’ottenimento dell’immortalità. Inoltre, Manzoni sembra riprendere il covo dell’antagonista (secondo la definizione tradizionale di locus horridus, ed entrambi i romanzi presentano anche il locus amoenus) direttamente da Apuleio, che così descrive la posizione del covo dei ladroni:

“Noi eravamo proprio sotto una montagna, altissima, paurosa, tutta coperta da boschi fittissimi, lungo i suoi fianchi dirupati, tutti rocciosi,
puntuti e, perciò inaccessibili, si aprivano anfratti profondi coperti di
rovi e disposti in ogni senso, tali da formare intorno intorno come una difesa naturale. Dalla vetta sgorgava a grandi getti una sorgente le cui acque argentate precipitando a valle si rompevano in tante cascatelle che poi, raccogliendosi nel fondo di quegli anfratti vi ristagnavano formando come una sorta di recinto, quasi uno stretto di mare o un fiume che s’impaluda. Sopra la caverna, proprio sul ciglio di un dirupo, si ergeva un’alta torre. Solide staccionate di robusti graticci per rinchiudervi le pecore si stendevano da una parte e dall’altra e davanti all’ingresso formavano uno stretto passaggio come fra due alte pareti”.

La natura sembra ribellarsi anche nella descrizione del castello dell’Innominato manzoniano, dall’accesso impervio e dai tratti foschi e terrificanti:

“Il castello dell’Innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un pendìo piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di confine ai due stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l’altra parete della valle, hanno anch’essi un po’ di falda coltivata; il resto è schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne’ fessi e sui ciglioni.”

Il locus horridus, tanto in Apuleio quanto in Manzoni, coincide con l’antro del personaggio negativo. E’ una zona impraticabile, esclusa e ostile alla natura stessa, che con i suoi rovi e i suoi moti l’ha resa inaccessibile. E’ questo il tema del nemico escluso e della distanza anche fisica, non solo ideale, tra il luogo del bene e il luogo del male. I due spazi sono descritti come difficili da raggiungere e ancor più difficili da lasciare: sono i luoghi della perdizione, in un contesto come fuori dalla storia e dalla civiltà, un luogo dimenticato. Dimenticati sono anche tutti i valori che il protagonista invece rappresenta, i quali al cospetto del luogo terribile si vanificano e lasciano spazio al puro terrore.

Ma Le metamorfosi hanno ancora qualcosa in comune con il grande romanzo di Manzoni: l’elemento trainante della storia tutta, la Divina Provvidenza, concetto già espresso in Apuleio con il nome di deum providentia o divina providentia. Infatti gli eventi, tanto nel romanzo di Apuleio quanto nei Promessi Sposi scaturiscono dall’intervento del tutto parziale della Provvidenza, molto vicina al concetto di Τύχη, personificazione della sorte cieca e imprevedibile, che è unica responsabile del mutare delle situazioni e delle condizioni. Mentre però nel romanzo manzoniano ha grande rilievo l’azione umana che può mutare, se Dio vuole, le sorti della Storia, nel romanzo apuleiano nessun peso sembra avere l’uomo: egli è mero strumento in mano ad una divinità pagana tutta centrata sul suo culto e poco interessata alle vicende umane. La risposta a quest’innegabile esigenza di dialogare con una divinità altrimenti assente verrà proprio dalla dea Iside, che è però già lontana dal “pantheon” divino greco-romano, e ne rappresenta solo una successiva contaminazione.

Per definizione, infatti, la divinità per eccellenza nella classicità ellenica e latina è quella volubile, capricciosa, ben interpretata dalla dea Venere, che non aiuta anzi ostacola gli sforzi dell’uomo alla ricerca di una tranquillità che i continui rivolgimenti della sorte negano volta per volta. Infatti, gli sforzi di Lucio-asino non vengono ricompensati, anzi puniti continuamente: la presenza di uno strumento di punizione è continua, dal bastone alle pietre, fino alla violenza a mani nude. Colui che soffre per le bastonate è fisicamente senz’altro l’asino, ma a livello mentale la percossa è inflitta a Lucio stesso. La questione della dissociazione anima-corpo è alla base del romanzo, ed è ripresa di un tema caro ad Ovidio stesso, che nell’omonimo romanzo Le metamorfosi, affronta come motivo principale proprio la trasformazione del corpo in novas formas, ed il suo universo, come del resto anche quello di Apuleio, è un eterno miraggio: la sembianza non è mai la sostanza, e la Tessaglia “terra di streghe”, lo sfondo della narrazione, che è per definizione dell’autore “paese che tutto il mondo celebra come culla degli incantesimi dell’arte magica”, è dopotutto l’illusorio scenario in cui i ciottoli diventano uomini pietrificati, gli uccelli “uomini piumificati”, “gli alberi intorno al pomerio uomini frondificati”, la terra in cui a Lucio sembra che “le statue e i dipinti fossero lì lì per camminare, i muri a parlare, buoi e simili a dare profezie, e che perfino dal cielo e dal disco solare all’improvviso venisse giù un oracolo”.

 

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