Il labirinto dei pensieri: la solitudine dell’unico

“Il fatto è che sono unico. Non ho interesse per quello che un uomo può comunicare ai suoi simili; Talvolta di ciò mi rammarico, perché le notti e i giorni...

“Il fatto è che sono unico. Non ho interesse per quello che un uomo può comunicare ai suoi simili; […]Talvolta di ciò mi rammarico, perché le notti e i giorni sono lunghi. […] ho riflettuto a lungo sulla casa. Ogni parte dell’appartamento si ripete, ogni luogo è se stesso e un altro luogo. Non ci sono una sola cisterna, un solo cortile, una sola fontana, una sola stalla; ci sono infinite stalle, infinite fontane, infiniti cortili, infinite cisterne. Una casa grande quanto il mondo! Ma a furia di andare a vanti e indietro per i cortili e per i polverosi corridoi di pietra, raggiunsi la strada, e vidi il mare e il tempio delle Fiaccole. Inizialmente, non capii; poi una visione notturna mi spiegò che anche i mari e i templi sono infiniti. Ogni cosa esiste più d’una volta, infinite volte.” Quando lo scrittore dà la parola al personaggio, è come se gli concedesse il diritto di replicare. Una facoltà riconosciuta e utilizzata per penetrare le sottili corde dell’animo del personaggio stesso, che si rivela, in tali casi, una vera e propria forma di contestazione nei riguardi di quelle convenzioni che l’hanno stereotipato al momento della sua nascita, e che, con l’occasione, non esita a smentire. Si pone in contrasto con la tradizione mitica che l’ha da sempre diffamato ed etichettato come paradosso esistente, distorsione della natura, forzatura delle leggi umane, esponente di quelle mostruose ed inconcepibili dalla mente di un uomo, anche il Minotauro, che leva la sua voce in sentita e struggente replica nei confronti del mito che non gli ha mai reso giustizia. Rivisto in chiave moderna dallo scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges nel racconto La casa di Asterione (1949), il mostro intrappolato nel labirinto a causa della sua pericolosa diversità di essere metà uomo e metà toro perde la sua ferocia e si sveste della brutalità istintiva e ferina che l’ha recluso in una costruzione insidiosa e geniale, destinato a divorare periodicamente nove fanciulli e altrettante fanciulle. Strumentalizzato dal padre Minosse come esecutore e mezzo di vendetta personale contro Atene, nel mito è contrapposto all’eroe benefattore Teseo, che escludendolo dalla vita compie un atto eroico volto a porre fine al sacrificio dei giovani ateniesi. Ma nessuno aveva mai esplorato l’interiorità del mostro, nessuno si era mai preoccupato di prestare l’orecchio ad una storia che non era ancora stata sentita. Semplicemente cambiando prospettiva, Borge, ispirandosi al famoso ritratto di George Frederick Watts, Minotauro, dà vita ad un gioco di ruoli scambiati, esplorando a fondo la mente del mostro, dandogli pensieri e parole che tradiscono un animo ben diverso dallo stereotipo classico. Il vasto e buio e impenetrabile recinto di cunicoli in cui è intrappolato diventa lo specchio della sua mente, intrappolata in una serie di clichès che lo soffocano così come la rete di intrecci che lo avviluppano. E’ per questo che il labirinto è chiamato “casa”: ormai è l’habitat a cui il prigioniero si è forzatamente adattato, ed è nella sua forma la riflessione della sua psiche, tortuosa e aggrovigliata. Nascosta sotto la paura di non essere accettato così com’è, e ancor più in fondo dell’inconsapevole mostruosità che lo isola e lo rende offensivo agli occhi di un mondo che non lo accetta, si fa strada nel suo animo la consapevolezza di una ricerca di panorami più vasti, al di là del soffocante mondo polveroso del labirinto, l’unico a lui concesso. Concepimento di un pensiero che parte dalla percezione di un’unicità rispetto al mondo di dentro e di fuori, replicato tante volte quanto l’infinito, ma concetto inafferrabile ed inarrivabile per un essere unico nella sua diversità com lui, tagliato fuori dal mondo e dai suoi abitanti. Abituato alla solitudine che si configura come pretesto per esplorazioni solo mentali del mondo di fuori, il Minotauro spogliato dei connotati tradizionali di bestialità e crudeltà non mostra i segni della scontata repressione, quanto piuttosto di un’aderenza ad una visione della vita inaspettata, e la maturazione e sviluppo di una psicologia propria, che si annoda seguendo le trame della sua psiche, tanto intricate quanto il labirinto in cui è perso. L’isolamento appare tanto spaventoso che alla fine la morte per mano di Teseo parrà una liberazione dalle sofferenze dell’esistenza. L’eroe da carnefice a liberatore è indice del radicale cambio di prospettiva, e il mostro parimenti attraversa un percorso al termine del quale da offensivo diventa leso. Leso interiormente da una dilaniante solitudine che spinge i pensieri più pessimistici a impadronirsi di lui. Il labirinto non è che la concretizzazione della sua psicologia, in quanto non è il suo covo, il suo rifugio, ma la sua prigione, il suo micromondo imposto, l’universo circoscritto in cui è stato recintato da tutta una tradizione mitica che la voce impietosa e falsa dei cantastorie ha trasmesso per secoli, seminando un’immagine del mostro che ha fatto germogliare l’antipatia verso un ruolo di cattivo che adesso Borge intende smantellare. E vedere un mondo sempre diverso, mentre lui è sempre lo stesso, semina in lui il germe dell’incomunicabilità; allora l’unicità non è più un onore e un orgoglio, ma un disvalore che anziché esaltare la sua virtù, rende sempre più marcata la discontinuità con il mondo di fuori, e sempre più stretti i nodi che lo stringono. Ecco perché Watts lo coglie affacciato su un mare scuro di cui non lambirà mai le onde, in una posizione di drammatica contemplazione di un mondo esterno che non gli appartiene. Ma è voltato di spalle, e pertanto si traduce anche il rifiuto del suo carcere labirintico. Rinnegato dalla natura, adesso rinnega se stesso, la sua originalità che lo ingabbia in una capsula destinata a rimanere perennemente incompresa dal resto del mondo. Gemente di fronte ad un panorama celeste che veste le cupe tinte della sua desolazione e che non vedrà mai la sua libertà, il Minotauro rappresenta un unicum in conflitto con se stesso, e più che prendersela con gli uomini, che è destinato a sbranare ma che in realtà vorrebbe salvare, non considerando il compito a lui assegnato come un macabro tributo di sangue, piuttosto nelle vesti di una funzione catartica, poiché secondo il suo punto di vista la morte libererebbe gli uomini dalle loro oppressioni («Ogni nove anni entrano nella casa nove uomini, perché io li liberi da ogni male»), compie un viaggio nella sua interiorità, svelando un animo che in fondo è quello di un uomo in esilio, chiuso a chiave in una scatola di vetro, in un corpo che ne limita l’espressività, e in contrasto con le leggi dell’apparenza. Sulla scia del pirandelliano Vitangelo Moscarda, che ritiene essere unicamente nell’annullamento in una dimensione superiore la risposta ai quesiti dell’uomo, il Minotauro allo stesso modo ritiene che nella dissoluzione della vita materiale si possa trovare meritata e degna requie ed arriva ad aspettare l’arrivo di un liberatore; la crudeltà perfettamente in linea con l’efficacia del piano macchinato per riuscire nell’impresa da Teseo ed Arianna si capovolge nella mente della creatura mostruosa come una riuscita fuga dai limiti e dalle oppressioni della sua misera esistenza, il termine del suo eterno brancolare nel buio alla ricerca di un’uscita dal labirinto, e insieme di un senso inafferrabile da attribuire all’esistenza, imbevuta di significati che sfuggono alla mente dell’uomo, obbligandolo ad un vagare eterno e disperato, oltre la razionalità, per cogliere il senso della propria identità, sfumata e non completamente percepibile. In fondo il Minotauro non è che una metafora, è la rappresentazione del mostro che giace in ognuno di noi, la personificazione dei nostri dubbi, il nostro più grande interrogativo. Gioco retorico ed esagerata esternazione del monstrum dell’incertezza e da una parte anche vaga rappresentazione dell’inadeguatezza, dell’ambiguità, il Minotauro, come Polifemo, svela un lato di sé attanagliato da insicurezze di sorprendente umanità, e il punto di vista assunto dallo scrittore, quello straniato e distaccato del mostro, diventa quello attraverso cui anche il lettore intravede il senso del racconto, arrivando a provare dispiacere e finanche tenerezza per il personaggio, che in fondo è un essere solo, complesso e, come tutti gli esseri unici e fatti per sviluppare le forme della loro diversità da soli, velato di una malinconia fumosa e penetrante.

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